1968: Belice

1968: Belice

14 Gennaio 1968.

Alle 13:28 la Valle del Belice, compresa tra le province di Trapani, Agrigento e Palermo, viene investita da un violento sciame sismico che si protrae, a fasi alterne, per le 24 ore successive, interessando i comuni di Gibellina, Menfi, Montevago, Partanna, Poggioreale, Salaparuta, Salemi, Santa Margherita di Belice, Santa Ninfa e Vita.

Ventuno scosse di forte intensità cambieranno per sempre la vita e il volto di parte della Sicilia. Edifici e abitazioni crollano su loro stessi sgretolandosi come sabbia. La scena che si presenta agli occhi della gente riversatasi in strada è spettrale, quasi apocalittica.

La forza inaspettata del sisma e i ritardi dei soccorsi – rallentati da strade risucchiate dalla terra e dall’impossibilità di garantire i collegamenti (saranno proprio le difficoltà nella gestione della macchina organizzativa a gettare le basi per la creazione dell’organo della Protezione Civile, intesa come predisposizione e coordinamento degli interventi) – provocano la morte di numerose vittime: da 200 a 370 i morti, a seconda delle fonti, circa 1.000 i feriti e circa 70.000 gli sfollati.

Intervistato da un inviato del Corriere della Sera, il primario chirurgo dell’ospedale di Sciacca, prof. Giuseppe Ferrara, racconta l’arrivo dei feriti salvati dalle macerie: «Stavamo operando, il pavimento ci ballava sotto i piedi. Eravamo in sala chirurgica dalle 8 del mattino. […] Uno solo di tutti quelli che abbiamo operato è morto. […] Gli altri, senza una gamba, senza un braccio, li abbiamo tutti salvati. L’intervento più difficile fu una trapanazione del cranio: era una bambina di quattro anni che i vigili avevano trovato a Gibellina, fra le braccia della madre morta».

Quella che passa alla storia come una delle catastrofi naturali più importanti del nostro paese ha avuto una grande eco nel mondo dei media e della cultura. Ne è un esempio il “Cretto di Gibellina (comunemente noto come Cretto di Burri)”, la grande opera di land art realizzata site-specific dall’artista contemporaneo Alberto Burri tra il 1984 e il 1989, completato nel 2015, nel luogo in cui sorgeva la città vecchia di Gibellina. Come un gigantesco calco in cemento, l’opera (tra le più estese al mondo e distribuita su una superficie di circa 80 000 metri quadrati) attraversa e riproduce, grazie a blocchi di circa 160 cm, vicoli, arterie e venature del comune trapanese con l’intento di imprimere nel terreno la memoria di ciò che è stato.

Ancora, nel 2008, in occasione del 40° anniversario del terremoto, il regista Salvo Cuccia ha realizzato il documentario “Belìce 68, terre in moto” in cui, attraverso interviste e l’ausilio di filmati tratti da trasmissioni televisive dell’epoca, descrive la situazione che ha seguito il sisma e l’attuale condizione della valle. L’anno successivo, a cura di Edizioni Grafiche Santocono è uscita “I figli del terremoto“, un’intervista del giornalista Antonino D’Anna a mons. Antonio Riboldi.

Cosa resta oggi, a più di 50 anni dal terremoto del Belice? Il dolore di una terra che, da quel giorno, non è stata più la stessa, una ferita mai davvero rimarginata, diritti e aspettative disattese e il sogno, la speranza, la volontà di ricominciare e rinascere.

articolo di Carmela Chiara Corso

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Photo credit copertina: Denise Serra / Getty Images