Matteo Lo Vecchio

Matteo Lo Vecchio

Lo sbirro nemico di tutti, amico di nessuno

Uno dei tratti più affascinanti dei romanzi di Luigi Natoli è, senza dubbio, il loro rispecchiare, seppur in parte, fatti e personaggi storici le cui tracce si perdono, tra realtà e finzione, nelle memorie tramandate di generazione in generazione. Uno tra questi è Matteo Lo Vecchio, il terribile e infido “sbirro” sguinzagliato da don Raimondo alla ricerca dei Beati Paoli. E non è un caso che l’autore lo scelga come antagonista della setta.

Personaggio realmente esistito, vissuto tra il XVII e il XVIII secolo, Matteo Lo Vecchio, descritto dal Natoli quale uomo perfido e ingannatore, passa alla storia come il più infame degli “algozzini”, (dallo spagnolo alguacil, sceriffo o sbirro): rozzo, doppiogiochista, al soldo dei ricchi padroni tanto di Palermo quanto di Sicilia. A causa della sua scarsa tempra morale e dei suoi modi violenti e assai poco ortodossi, si rende protagonista della “controversia liparitana”, un’aspra disputa scoppiata in Sicilia durante gli anni del regno di Vittorio Amedeo di Savoia che contrappone il re al papa.

Lipari, 1711. La richiesta di pagamento delle imposta da parte di due guardie alla mensa vescovile fa scoppiare un caso alla base di un duro e lungo conflitto tra Stato e Chiesa. Il vescovo di Lipari, indignato per l’aperta violazione dei privilegi riservati alla classe clericale, chiede la scomunica per le due guardie. Ne nasceranno numerosi scontri politici tra gli uomini del viceré e gli sgherri pontifici. Tra tradimenti, cospirazioni, atti delittuosi e arresti non sempre legittimi gli algozini, fedeli al re, non lesinano torture e violenze nei confronti dei religiosi fedeli al papa. Tra loro si distingue, Matteo Lo Vecchio, senza dubbio il più ferino e crudele di tutti. Conosciuto da tutti, nel quartiere dell’Albergheria, dove ancora oggi è possibile ritrovare l’abitazione, di cui resta testimonianza attraverso il toponimo, acquisisce ben presto la fama di abile scassinatore e profanatore di chiese e conventi,attirando il timore e l’odio della popolazione che inganna, imprigiona ingiustamente estorcendo loro denaro.

Il 21 giugno 1719 all’angolo di vicolo Brugnò, nei pressi della Cattedrale, viene freddato da due colpi di carabina sparati da mano ignota. Al passaggio del defunto una gran folla festante, che durante il tragitto lo insulta, ostacolando lo svolgimento della celebrazione funebre all’interno della chiesa di Sant’Antonino. All’arrivo della salma una folla inferocita mette in fuga il cappellano, trafugando il corpo e gettandolo in un pozzo.

Più di due secoli dopo lo scrittore Leonardo Sciascia, impietosito dalla vicenda, intitola al Lo Vecchio l’epitaffio Una rosa per Matteo Lo Vecchio, in cui lo descrive come semplice ed inflessibile esecutore di ordini ricevuti dall’alto, che riposa nel pozzo accanto al “cadavere dello stato”.

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